Ma che cos’è la parola per la pittura - per la scultura? Per chi trae senso dal lavoro della materia? Azzardiamo una risposta, riferendoci alla realtà dell’opera di Angelo Noce. Come nella poesia può essere faticosamente riappropriato il grido o il giubilo, così nella pittura può essere raccolto, ritentato con umiltà il momento della creazione del simbolo. Perché la scrittura alfabetica non poteva essere semplicemente una sintesi iconica del reale - ma nel momento in cui avesse abbandonato la dimensione iconica doveva strutturalmente porsi come gesto magico, capace di riattivare la presenza spirituale dell’oggetto.
Nella scelta di Noce di una scrittura come pratica d’artista troviamo senz’altro alcune implicazioni satiriche e polemiche: la denuncia del calligramma, la critica della pittografia... nulla si troverebbe in queste produzioni che miri ad un estetismo, magari anche mimetico, del segno grafico della lettera o della frase in sé come elementi decorativi. Una prima serie di ricerche grafico-pittoriche dell’autore studia con ricchezza sorprendente di fenomenologia del segno il prendere corpo della scrittura - lì i simboli delle lettere parevano poter emergere faticosamente da ancora più basilari forme, salvo venire soverchiati sistematicamente dalla metamorfosi di queste loro componenti nucleari, che senza lasciarsi piegare alla rigidità definitiva della lettera si aprivano a spazi dinamici di tensioni, a cromatismi ed a volumi. Nelle opere più recenti, però, l’impressione più forte è data dalla completa ricopertura delle superfici pittoriche da parte dei segni, dall’ostinazione del loro allinearsi - vorremmo interpretare questa insistita e macroscopica qualità come il riflesso di un processo di autodisciplina del gesto. E ancora più esplicitamente: un vero e proprio esercizio di automazione del gesto, che si collega alla ricerca di una specifica disposizione fisiologica dell’atto tutto corporeo e motorio del tenere il pennello, del coordinare l’occhio e la mano; possiamo congetturare l’emergere di una particolare compenetrazione tra il ritmo del gesto, la precisione del movimento e la respirazione; una situazione di lucidità ed autocontrollo che è insieme liberazione dai controlli superficiali ed inibitori che la seconda natura indotta ci suggerisce. Eppure, al di là di questo pur importante esito, l’opera di Angelo Noce punta in una direzione ancora più profonda: la scrittura infatti, e di ciò l’artista è ben conscio, è essa stessa capace di presentazione, di evocazione - può cioè ospitare essa pure un’epifania dell’essere.
Le scritture di Angelo Noce sembrano alludere, con le loro proprietà alchemiche suggerite dalla vergatura arcana, dai colori e dalle attinenze con le materie lavorate che l’autore ci presenta, ad una potenzialità edenica della scrittura e quindi per sineddoche della tecnica - al tempo stesso esse coprono e svelano, come cortine, gli incendi, le morti, la combustione, l’incombente precarietà delle culture. Sorge così, nel momento in cui il corpo dell’artista si intona nuovamente ad uno scrivere che ritorna ad essere parte integra del gesto corporeo, una memoria visuale e cromatica, che svela non più gli eventi isolati nel tempo e nello spazio, le sostanze immote ed indipendenti, gli oggetti. Rivela piuttosto i processi, rivendicando una concezione dell’essere in cui la materia non si dà mai come materiale disponibile ad una manipolazione tecnica arbitraria, ma sempre come compenetrazione osmotica con la presenza umana. Con il sovrapporsi a queste tracce fantastiche della scrittura, si evoca infine una speciale dimensione del tempo: mentre ciascuna opera indica il momento dell’equilibrio precario tra una singola forma che si organizza o che si dissolve e il suo contesto, nell’insieme invece esse mirano a presentare la metamorfosi dell’identico, l’apice di oggettività sempre rinnovantesi di un fenomeno originario ( per dirla con Goethe). Ciascuna di queste opere sembra comunicare l’esperienza di una percezione profonda e stillante di una morfogenesi ritmica: un tempo assoluto, che è semplicemente là nel nostro sé come ritmo inconsapevole di evocazione e significazione, rispetto al quale la scrittura che copre la tavola è una fase continua, la coda di cometa di questo concretizzarsi dell’imago nel cuore. In queste opere di Angelo Noce c’è infine anche la fiducia giocosa nell’esperienza creativa, l’attesa di scorgere, dietro l’umano con i suoi limiti e le sue ricchezze, ancora inespressi livelli di solidarietà con l’umiltà solida delle cose, con la giustizia - che sa di destino - del loro aggirarsi sempre incomode nella sfera dei progetti e delle attività umane. L'artista aspetta sulla soglia, con curiosità ma senza morbosità, questa nuova cosmogonia: nella certezza che non sia l’ultima, poiché l’essere ha in lui natura eventuale, curvature sempre inattese che conducono a nullificazioni che sarebbero umilianti - se si trattasse di carpire al reale con stratagemmi estetici la sua intrinseca struttura. Fortunatamente basta esistere, guardare, porgere un gesto - nel senso di una consapevolezza tutta zen e tutta socratica di una docta ignorantia che aiuti a imparare a dimenticare la propria stessa dottrina.

Franco Gallo

 
SEMI DI MEMORIA
Giardini e Casa Chiappa di Crema
1998


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