La voracità visiva di cui è imbevuta la nostra epoca fonda la propria forza culturale sul potere intrinseco che ha l'immagine di spostare in un punto diverso dello spazio l'essere, o la parte di essere, che v'è di fronte. È sorprendente come l'uomo contemporaneo, infatti, spenda una gran quantità della sua energia per trasferirsi da un luogo all'altro del pianeta, lungo i percorsi labirintici che altri hanno disegnato in modo inutilmente accattivante, e questo senza che la propria massa corporea muova di un solo centimetro l'ingombro del suo sguardo. Proprio dentro quest'universo, sovralimentato dalle scorie del suo stesso metabolismo, un uomo, l'artista, apre uno squarcio all'orizzonte del reale, nell'incrocio fortunato fra il proprio tempo inferiore e la geografia di una visione volontaria, vissuta e per questo irripetibile; penetrata la spessa cortina scenografica a due dimensioni, cui siamo costretti dall'ordinaria passività quotidiana, egli giunge nel territorio sconosciuto della vita reale per spiccare un volo della percezione che travalichi l'ordine dei sensi e s'affermi nella tensione alla presenza. È una teoria implicita della visione, dunque, qui formulata nella veste di teoria dei mondi possibili, oltre che dei transiti, naturalmente.
I dipinti recenti che Angelo Noce propone in questa raccolta, credo che non intendano rappresentare nulla né in maniera figurata né astratta; sono, invece, essi stessi, la distillazione di uno sguardo da un luogo privilegiato d'osservazione e, come tali, la testimonianza preziosa di una condizione dello spirito. Pur nella continuità del suo lavoro, Noce muove dalla dimensione temporale - che aveva costituito il nucleo portante della poetica precedente - a quella dello spazio o, in altri termini, dalla vita atomica della materia alla dinamica del moto cellulare, passaggio che ancora si avverte nell'evoluzione alchemica dalla terra e dal fuoco all'acqua e all'aria, elemento, quest'ultimo, che letteralmente irrompe in questi dipinti con lo scopo di costituirne il campo.
In realtà, i vortici che sembrano generare la composizione traggono origine da un asse ideale, perpendicolare alla superficie del quadro, e intorno al quale viene fatta ruotare la sostanza del segno e del colore, così che distanze prospettiche variabili possano produrre spire più o meno ampie e più o meno veloci. La varietà di tale ordito risulta infinita quanto l'imprevedibilità degli effetti sulla percezione di chi osserva: richiamati dall'irruenza centripeta che vi dimora, l'oggettualità del referente si parcellizza in una miriade caleidoscopica di colori e frammenti, di particelle atomizzate o massive che, nella velocità mutevole del movimento circolare, tornano ad aggregarsi per dar vita a cellule e tessuti di un corpo danzante, a tratti intellegibile a tratti dissolto nel velo della caduta. L'impianto a spirale ci trascina vertiginosamente dentro il dipinto, in qualche maniera ne diveniamo parte, non solo perché la qualità della nostra visione è soggetta alla sua geometria vigorosamente centrale, ma soprattutto per il fatto che il timbro e le altezze cromatiche delle tessere ruotano secondo una legge armonica che alberga, identica, dentro il corpo di chi guarda.
Il risultato è una suite, voluttuosa e profonda nella sarabanda, squillante e vivace nella giga, che conduce la parte più leggera della nostra emozione in un salto inebriante nel vuoto, a volo d'uccello, galleggiando sopra mondi concentrici di remota appartenenza: talvolta la caduta rallenta, amplificando il segno, che diventa più grasso e materico, in altri casi accelera, espandendone la grana fino a rendere quasi visibili i brani di un paesaggio marino o le mappe consunte di un'antica cartografia urbana. L'assenza di margine o, se si preferisce, di cornice, accentua questo gioco, prospettico di campo, proprio come accade in una macchina da presa, chiamata ad avvicinarsi repentinamente alla sua meta; è da questa considerazione incidentale che evinciamo la mobilità del soggetto, di colui che è e vede, non quella dell'oggetto, che, al contrario, resta immobile: quella terra che pur continua a precipitare inesorabilmente nella spirale del tempo. In alcuni lavori compaiono scene affiancate e complementari che meglio chiariscono l'analisi e l'idea progettuale: sono come una pausa di riflessione e di riposo o la concettualizzazione di ciò che sta accadendo, alla stregua di un diario di bordo. Sono convinto, tuttavia, che i lavori di questa esposizione vadano vissuti più che osservati o pensati ed è per questa ragione che auguro al visitatore, cui indirizzo queste poche note, tutta la consapevolezza possibile nell'assunzione di un corretto punto di vista, presente e unitario, come ci suggerisce l'autore.

Gaetano Barbarisi

 
MIGRAZIONI
Circolo culturale della fiera di Crema
1993
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