II viaggio pittorico di Angelo Noce dal1987 a oggi si è andato
via via raccogliendo attorno a tre nuclei tematici, di cui uno rappresenta
la continuazione dell'altro e, insieme, formano un corpus unico.
Un corpus che esprime, in un primo momento, la poetica di un
frammento perduto, poi la ricerca di un mondo scomparso e, infine, il
libero dispiegarsi nel cielo infinito del proprio territorio mentale.
E, direi, del proprio desiderio. Ognuno di questi tre momenti si attua
attraverso tre "luoghi" privilegiati di visione. Derive ne è il primo. E si presenta, quasi sempre, con delle forme chiuse,
cellulari che navigano, fluttuando, in una cartografia materica fortemente
accentuata da colori chiari, lattiginosi mentre, al contrario, nelle
sparse cellule colori forti e densi si richiamano e si raccolgono l'uno
accanto all'altro in una sorte di "radiosa felicità"
alla ricerca di un tempo perduto, di proustiana memoria. Una memoria
che, per incanto, e a volte per contrasto, scopre nel frammento amebico
il dato che consente all'artista di ritrovarsi non più smarrito
nelle secche della condizione quotidiana. Di fatto, nell'attenta opera
di ricostruzione dell'invaso della frammentata memoria, si addensano
incerti echi, sogni, proiezioni, ansie del passato e vengono, per dir
così, riviste in una nuova dimensione temporale, con un'ottica
che rinvia al passato più per accostamenti e metafore che per
pienezza di discorso.
Ma è proprio questo procedere in una prospettiva nient'affatto
storica che consente, e in parte permette, l'illuminante penetrazione
nei recessi più oscuri della propria intimità sofferta.
Diversamente accade per Ocra rossa. Questa serie di dipinti,
già nel titolo, si presenta con un procedere diversificato, rispetto
alla stagione di Derive. Derive rimanda al perenne
fluire del tempo, al mutevole scorrere di un fiume. E come su un fiume
viaggiano, in superficie, i segni e i semi della memoria. Solo un'opera
di recupero può dare loro vita. E ciò avviene. Le informe-forme
cellulari recitano questo recupero. E ondeggiano nel gran mare della
memoria come la rimbaudiana Ofelia, "stesa nei lunghi veli".
In Ocra rossa invece il disseppellimento è completo.
La memoria viene dissodata, liberata dai detriti che la ricoprivano.
E il rinvenimento prospetta un diverso orizzonte di senso. Non più
frammenti, non più nostalgie, non più lacerti informi
ma la pienezza e la forza di una massa che si libera dai suoi viluppi.
E dai nascondimenti operati dal tempo. Certo, la scoperta è niente
affatto indolore. Anzi porta con sé le disarmonie di un tempo
della miseria e della crisi, esprime la caducità e la precarietà
dell'esistente senza indulgere in dimenticanze o in aggiustamenti. Da
qui il presentarsi sulla scena di un ricordo bruciante e sanguigno come
una ferita; da qui l'aggressiva tensione che domina e percorre la materia.
È come se il velario d'ombre fosse stato squarciato oltre i propri
infingimenti. E la memoria può percorrere liberamente i propri
grumi decomposti per affacciarsi su un presente nudo, nella fissità
dell'eterno richiamo della materia.
Se in Derive insomma si assiste a una poetica della suggestione
che, in qualche modo, richiama le Ninfee di Monet nei colori
che si decompongono come carne marciscente; in Ocra rossa il
richiamo è alla violenza distruttiva del tempo, all'impraticabilità
di un suo restauro totale. È come se Noce avvertisse uno spaesamento
definitivo dal linguaggio della totalità, da una temporalità
che si presenta come templum. Per questa via, non senza
intime dilacerazioni accoglie in sé la disomogeneità di
un tempo in cui s'iscrivono le contraddizioni e i conflitti del presente
e anche la ragione che ci permette di leggere ed essere in questi
conflitti.
In Migrazioni lo scenario cambia radicalmente. La consapevolezza
di un territorio non più rappresentabile e non più percorribile,
quali ne siano gli strumenti chiamati ad interpretarlo, portano l'artista
a cogliere nell'effettualità dell'evento stesso il nuovo e l'annuncio
del nuovo che si presenta, non più con l'accumulo della memoria
distruttiva ma con lo sguardo sereno di chi ha compiuto un lungo viaggio
e si è librato sopra l'abisso delle macerie consegnate alla nostra
storia e alla nostra memoria. E ciò gli consente di guardare
la pagina del tempo, del proprio tempo, con empito vitale e riscriverla
con la stessa intensità con cui la vive, senza più cadere
nei meandri oscuri dell'essere. Anzi, al contrario, egli così
accede, senza più l'ausilio della memoria, in un "altrove",
dove regna ancora la "reliquia secolarizzata" dell'essere
e cerca di ridarci quest'ultimo pregno della sua essenza.
In questa direzione vanno letti gli ultimi lavori di Noce. Qui non esiste
più la corposa evidenza della materia di Derive e di
Ocra rossa. Niente più rimanda a un esito, sia pure
incerto, di lotta e di crisi. Tutto diventa aereo, libero. Anche il
gesto che traccia segni che ascendono verticalmente o s'incapricciano
in volute paraboliche. Il fondo è chiaro, un chiaro cielo dove
Noce inventa una scrittura, un vortice di segni colorati che si rincorrono,
che parlano, ciarlano tra loro con bizzarra leggerezza, come una trapunta
d'aghi, o fili tessuti in un azzurro evanescente o opaco.
L'animo si smarrisce e si perde, fugge via inseguendo le labili tracce
di questi incontri di linee che si scontrano in una pluralità
di procedure diverse dove si rappresenta la costruzione di uno spazio
e di un senso che celebra l'estasi ineffabile dell'esperienza vissuta.
Gerardo
Pedicini