DERIVE E MIGRAZIONI
Palazzo Vailati di Crema
1987

 

Quello che l'arte di Angelo Noce compie è un ciclo. Se ne rende conto chi segue la sua produzione in questi ultimi dieci anni; da «Materia muta» a «Terre grafiche» e ora «Derive e Migrazioni». In questi passaggi è sempre il borbottio sommesso e costante della materia a farci da ispiratore. Ma una materia che non può mai presentarsi totalmente,
cioè come tutto o come totalità, priva di menomazioni, che ha raggiunto una maturità perfetta. Perché se questo fosse sarebbe inutile e sbagliato il nostro prossimo passo, qualunque esso possa essere. La materia ha da essere imperfetta perché trovi la realizzazione in altro e possa allora fruttificare.
La parola «materia» è una parola che parla in questo senso, in origine è un termine di antiche comunità agricole riferito alla sostanza materna dei tronchi d'albero, concetto astratto sorto dalla radice mater, madre. È così che il frutto si fa feto e il feto diventa frammento e questo nasce da un verbo, da un'azione, un agire violento, dalla voce frangere, rompere. Non è un caso se le radici di queste parole sembrano rincorrersi tutte: “bhreg” per frangere, “bhrug” per frutto. C'è un rincorrersi semantico ed etimologico in questi termini, ma non si poteva sfuggire perché questi lavori, quest’arte ha deciso di lanciare un messaggio, quello del figlio alla ricerca della madre, del frammento che si vuole ricomporre e quello del frutto che trova il proprio cibo nella polpa dell'albero, ma si realizza soltanto dopo essersene staccato.
Se questa materia è allora madre il frammento non può essere che figlio. Sono ancora le parole a raccontarci, perché in questo frangere, in questa rottura, che è nascita, si realizza quel tutto che paradossalmente è nel frammento. Se il tutto è piena realizzazione è anche felicità, dal latino “felix”, anticamente con il significato di nutriente, dalla radice indoeuropea “dhè” allattare, da cui nasce la parola fecondo e la parola femmina e guarda caso la parola figlio.
Ma con la materia e il frammento non siamo che alla prima parte di questo ciclo, siamo all'unità, solo alla totalità, ma se così permanesse ci perderemmo nuovamente al prossimo passo, è necessario che questa unità, madre e figlio, si rompa per creare nuove generazioni. È certo che il figlio migrerà, devierà il suo corso, il proprio rivo prenderà nuovi fiumi, si troverà lontano dal mare-madre, sarà alla deriva. È necessario lo scambio, la migrazione, la mutazione e anche ora la radice è la stessa mei: migrare, mutare, passare, è la nascita avvenuta, il destino realizzato, il destino del figlio che cerca senza madre la propria felicità-femmina per ripetere quel ciclo infinito che è la vita.
I lavori di Angelo Noce parlano di questo mito e ci riportano alle nostre origini e alle nostre fini, scorgiamo nuovamente il paradosso, ogni finale contiene il proprio inizio, ogni nascita la propria morte.

Gianpaolo Ferrari