La superficie è un territorio narrante.
Così, nell'incontro con i muri affrescati di chiese
e palazzi, si apre quell'infinita pagina che scorre
nell'opera fissata dentro un tempo che passa,
e in questo tempo della mia vita.
Gli accadimenti voluti e accidentali del permanere
in loco del corpo pittorico e segnico parietale, ma anche
la scomparsa – quello stato di cancellazione e di vuoto
segnalato dai neutri, dalle rimanenze delle tracce e spessori
di colore e intonaco – nella speculazione intellettuale e poetica
sono divenute rotte (rotte: supposta direzione di navigazione)
interiorizzate dall'apparire e scomparire delle cose.
Rotte servite dalla conoscenza del mezzo e attraverso
questo accertabili, nella labilità e nell'aleatorio dei significati
inghiottiti nel mistero di una metaforica Atlantide.
Nei fogli sparsi di un unico libro che trattiene alcune pagine
negli abissi profondi e altre ne libera, sollecitato dalle correnti
marine, portandole in superficie nel caos babelico, il mezzo
– opportunità consapevole – e la poesia – la necessità –
investono di possibilità i rilievi di un infinito arcipelago
geo-segnico denso di simboli e scrittura, ma anche
tracce antropomorfe e zoomorfe.

I piccoli e grandi cartigli di questo mio operare sono
amo e reti che raccolgono poeticamente, senza riferimenti
né di scienza né di un concettuale in senso artistico,
il pescabile o eruzioni di lava e lapilli del vulcano.
Si apre, nel gesto di porre sulle pareti o dentro il campo
di luoghi carichi di storia, la ri-congiunzione della comune
necessità di rappresentazione ai margini, in senso stretto
a segnalare la peculiarità dei richiami, i depositi temporali,
i lasciti della memoria, la vicinanza e lontananza del tutto.

 


ROTTE DI TERRA
(2002-2013)

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